La CERAMICA MEDIEVALE DI VITERBO
Spunti per una nuova classificazione
I l libro che ha fatto conoscere la ceramica viterbese dentro e fuori le mura della città dei papi compie trent’anni nel 2013. Sono molti trent’anni nell’ambito della storia della cultura materiale, soprattutto se si considera come la continua ridefinizione della disciplina metta spesso in crisi studi anche recentissimi. Eppure La ceramica medioevale di Viterbo e dell’alto Lazio di Guido Mazza ancora oggi rappresenta un punto di riferimento indispensabile per chiunque provi a studiare il lavoro dell’argilla del Medioevo viterbese. Se per molti centri della Penisola (Pisa, Roma, Napoli, ad esempio) è stato ricostruito un quadro estremamente ricco di dettagli, ancora oggi in progressivo sviluppo, per Viterbo non sappiamo molte cose in più rispetto a ciò che conoscevamo trent’anni fa. Tuttavia è possibile provare a riorganizzare il materiale già noto, suddividerlo in gruppi, trovarne le differenze e metterlo in relazione con la storia della ceramica di altri centri produttivi.
1.Il vasto ed eterogeneo gruppo di ceramiche medievali provenienti dal Viterbese e conservate in collezioni pubbliche e private, è il frutto in gran parte di scavi urbani eseguiti nei riempimenti di quei contenitori di rifiuti solidi presenti quasi in ogni unità abitativa nel tardo Medioevo e in Età moderna e meglio noti come “butti” o “pozzi”. Ancora oggi manca uno studio complessivo in grado di stabilire i rapporti di quantità e di qualità tra le tre diverse classi di ceramica fi ne utilizzate sulle mense nel corso del XIII e del XIV secolo. A nostra conoscenza non esiste fi nora, per l’area presa in considerazione, un solo contesto archeologico in grado di fornire con precisione qualche elemento di cronologia assoluta per i materiali ceramici ivi contenuti. Nella maggior parte dei casi accade il contrario, viene cioè impiegata la ceramica esclusivamente come un attendibile indicatore cronologico per datare il contesto in cui è contenuta. In realtà il problema principale che sottende ogni altra questione è la trasmissione di “saper fare” nelle botteghe dei vasai, cioè l’introduzione della tecnica di copertura delle superfici con rivestimenti vetrosi nelle ceramiche. Nel tentativo di individuare i protagonisti e i tempi di tale trasformazione, piuttosto che cercare punti in comune tra i centri produttivi, è sembrato che la definizione dei caratteri differenti – e dunque delle diverse classi – potesse offrire un utile contributo per una lettura più approfondita del problema. Con queste note si è cercato di mostrare l’esistenza di una classe ceramica che forse può offrire informazioni proprio su coloro che per primi hanno introdotto la nuova tecnica.
2. Nella prima metà del XX secolo studiosi come Gaetano Ballardini definirono la grande quantità di maiolica proveniente specialmente da Orvieto come la prima maiolica prodotta in Italia e dunque “arcaica” o di “stile arcaico”. Con la locuzione maiolica arcaica per lungo tempo ci si è riferiti (a volte lo si fa ancora oggi) a quel nucleo apparentemente omogeneo di ceramiche, per lo più decorate in verde e bruno, riferibili ad una fase “arcaica” se messe in relazione con i materiali d’Età moderna. Ma già dagli anni ’60 del secolo scorso, con gli studi di David Whitehouse, tale locuzione ha cambiato il proprio ambito grammaticale (e semantico), cioè da nome comune è passata a nome proprio di cosa: da un generico riferimento ad una fase primitiva della maiolica, “Maiolica arcaica” è divenuto il nome proprio di una classe ceramica, da indicare pertanto con l’iniziale maiuscola. In seguito nuovi studi hanno individuato altre classi di ceramiche fi ni prodotte tra Lazio e Umbria nel tardo Medioevo: la Ceramica laziale (sia smaltata che invetriata), l’Invetriata verde e un’altra classe smaltata antecedente ad entrambe e sulla quale torneremo più avanti. 3. La Ceramica laziale è una ceramica depurata fi ne da mensa rivestita di smalto o di vetrina trasparente e decorata in bruno, verde, in alcuni casi anche con ossido di ferro, con motivi fi tomorfi (gigli, palmette, foglie lanceolate, foglie trilobate), zoomorfi (quasi esclusivamente pesci e uccelli) o più semplicemente con motivi geometrici (archi, linee sinuose, segmenti, tracciati con due linee parallele in bruno manganese campite con il verde ramina o in giallo). Un elemento ricorrente in questa classe prodotta in area orvietana e viterbese è un singolare motivo presente in alcuni contenitori trilobati, costituito da due “occhi” dipinti in bruno (un piccolo cerchio con dei punti attorno) ai lati della trilobatura e in alcuni casi sul corpo, a volte associati ad un grande giglio dipinto sul collo in posizione frontale (fig. 1) 1. Tale elemento è applicato specialmente su due forme: il boccale a base piana con un alto collo svasato distinto solitamente dal corpo conico o tronco-conico del contenitore da un sottile cordone in rilievo che ne marca la separazione (fi g. 2)2, e il boccale con collo simile al precedente ma con corpo sollevato rispetto al piede e globulare3: questi due tipi costituiscono al tempo stesso anche le forme chiuse probabilmente più rappresentative della Ceramica laziale (sia invetriata che smaltata) del viterbese e dell’orvietano. La singolare decorazione citata, cioè il giglio associato a due “occhi” dipinti sul collo del contenitore, figura con piccole variazioni in alcuni contenitori (per tale motivo definiti antropomorfi ) invetriati e smaltati, dalle forme analoghe, rinvenuti nel castello di Montella4 e datati alla fi ne del XIII secolo, e in Calabria negli scavi del castello di Scribla5 . In specie il secondo tipo segnalato, cioè il boccale con basso corpo globulare e alto collo svasato, comune anche nella Invetriata verde, sembra indicare un legame diretto con la grande quantità di ceramica invetriata della seconda metà del XIII proveniente dal centro di Napoli6 e non soltanto un generico “gusto” meridionale nei prodotti umbro-laziali. 4.Se per Viterbo, Orvieto e dintorni – come già detto – non esiste ancora sequenza stratigrafica in grado di documentare le trasformazioni dei contesti tardo-medievali, sappiamo però che la Ceramica laziale in Sabina non compare mai prima della seconda metà del secolo: a Montagliano dopo il 1263, a Offiano e Roccabaldesca tra la fi ne del XIII e gli inizi del secolo successivo7 ; nell’area ovest nella provincia viterbese, a Ischia di Castro, sembra essere attestata a partire dalla seconda metà del secolo8 ; così come i ritrovamenti di Tuscania sono tutti riferibili a contesti datati da monete posteriori alla metà del secolo9 . Meriterebbe senz’altro un approfondimento, magari in altra sede, anche la segnalazione di un nucleo di contenitori rinvenuti nell’antica Corinto, dalla forma apoda e con collo svasato indicati come related to Archaic Maiolica anche se rivestiti con un invetriatura verde o gialla, datati tra la fi ne del XIII secolo e il primo quarto del successivo, e riferiti ad un centro produttivo around Rome or slightly farther north10.Il quadro che emerge dai dati degli scavi svolti invece a Roma negli ultimi decenni è fortemente contraddittorio: la Crypta Balbi mostra una produzione simultanea (si è pensato anche all’interno delle medesime botteghe) di Invetriata verde e di Ceramica laziale, due classi dai tipi molto simili, già nella prima metà del XIII secolo; mentre gli scavi di Vico Iugario nel Foro Romano propongono una datazione alla seconda metà dello stesso secolo. Sembra cioè che due depositi distanti poche centinaia di metri uno dall’altro (oggetto di scavi considerati tra i migliori mai svolti in Europa negli ultimi decenni) raccontino storie piuttosto differenti. In realtà la storia è la stessa, e ancora una volta mostra la debolezza della nostra abilità interpretativa del dato archeologico nel tentativo di ricostruzione cronologica dei processi storici.
5.Con ogni probabilità dunque, sulla base dei dati qui riportati, la Ceramica laziale rinvenuta nel viterbese e nel territorio orvietano (e forse anche a Roma) si sviluppa nelle forme che conosciamo non prima della metà del XIII secolo (fi g. 3). Nonostante già Whitehouse nel 1976 abbia suggerito di considerare le ceramiche di Roma, Tuscania e Orvieto come appartenenti a tre tradizioni distinte sembra tuttavia che le trasformazioni verifi catesi almeno nei centri produttivi di Orvieto e del territorio viterbese (ivi compresa Tuscania), pur mostrando alcune diff erenze, siano il risultato di un processo comune. I caratteri stessi della Ceramica laziale – tipologici e decorativi – indicano l’esistenza di una classe precedente: essa non rappresenta cioè la prima ceramica rivestita fi ne da mensa prodotta nelle botteghe locali nel tardo Medioevo. Tra i fattori che contribuiscono alla sua formazione, oltre ad elementi che sembrano derivare da alcuni prodotti romani11 e la stretta familiarità con forme della ceramica invetriata campana sopra citata è da considerare un’altra classe presente in specie nei ritrovamenti del viterbese, i caratteri della quale permettono di definire il percorso evolutivo di alcune forme di Ceramica laziale. Si tratta di una ceramica fi ne smaltata, quasi sempre con una decorazione in tre colori (bruno, verde e giallo/marrone ottenuto con ossido di ferro) che si distingue in prima analisi per una rigida scansione della superficie: a settori decorati con motivi geometrici come il graticcio in bruno campito da punti di tre diversi colori si affiancano fi gure zoomorfe isolate o affrontate simmetricamente e motivi vegetali (fi g. 4) 12. Si prenda qui in considerazione una forma in particolare: il boccale tronco-conico e con alto collo svasato in molti punti analogo ad una tipo rinvenuto nel palatium di Federico II a Lucera13, datato al III quarto del XIII secolo e indicato – forse con eccessiva semplificazione – come una delle prove materiali del trasferimento, voluto da Federico, di artigiani saraceni dalla Sicilia a Lucera in un periodo compreso tra il 1223 e il 124614. É stato anche più volte ipotizzato, per il medesimo arco di tempo, un trasferimento di artigiani anche nel Lazio settentrionale dove, proprio a Viterbo, lo stesso imperatore inaugura personalmente nel 1240 una importante fi era annuale15. È pertanto probabile che si tratti degli stessi vasai che introducono per la prima volta la tecnica della seconda cottura, dello smalto e anche nuovi modelli tipologici che avranno molta fortuna in futuro. Tuttavia, la forma del boccale a base piana e alto collo svasato tipica di questa classe che abbiamo definito convenzionalmente “Protomaiolica viterbese” – per marcarne la sostanziale differenza con la Ceramica laziale smaltata – e connessa da una stretta familiarità ad alcune forme della Protomaiolica del Mezzogiorno, non può essere proposta come indicatore etnico, cioè come prodotto tipico di una cultura islamica; piuttosto, le diverse varianti regionali sembrano indicare autonome evoluzioni di un modello comune, questo sì, di origine islamica. 6.La medesima forma smaltata è attestata tra i ritrovamenti del castello di Lagopesole in Basilicata16 e riferibile alla presenza della corte di Carlo I d’Angiò (1266-1280), in Corsica17; nella variante invetriata a Reggio Calabria18 e in Sicilia a Brucato19. Ma soltanto nel Lazio settentrionale e ad Orvieto20 essa entra a far parte, con lievi varianti, del repertorio tipologico di Ceramica laziale, Invetriata verde e Maiolica arcaica, fi no a divenire nel corso del XIV secolo – unico caso per tutta l’Italia centrosettentrionale – un elemento materiale distintivo della cultura ceramica del territorio. Un segno di discontinuità, forse provocata da chi produce tale innovativa classe ceramica, può essere letto nella ormai nota norma comunale di Viterbo. La redazione del nuovo statuto (1251-1252) comprende disposizioni che tutelano i ghibellini sconfitti e consentono il rientro in città dei sostenitori del papa. Una norma obbliga i fi guli a fabbricare panatas cum duobus manicis sicut hactenus consueverunt21. La necessità di tale disposizione normativa, unica nella geografia delle fonti documentarie italiane, pur essendo di un rilievo tale da essere inserita nello statuto comunale, sfugge in prima analisi all’interpretazione di una lettura “archeologica”. L’avverbio hactenus con il verbo consuesco lasciano pensare ad un intervento conservativo a fronte di possibili fattori di cambiamento (forse introdotti da artigiani allogeni) nell’ambito della ceramica d’uso comune, a cui va riferita la panata. 7. La Ceramica laziale è una classe – si è visto – in cui le medesime forme appaiono rivestite con vetrina piombifera (mai con ingobbio) o smalto: è dunque probabile che le due tecniche di rivestimento fossero utilizzate contemporaneamente e all’interno delle medesime botteghe a partire dalla seconda metà del XIII secolo fino a gran parte del secolo successivo22. Questi elementi introducono il problema della distinzione tra Ceramica laziale smaltata e Maiolica arcaica. A tal proposito le conclusioni di Alessadra Molinari rappresentano il migliore contributo al dibattito avviato da Whitehouse nel 1967, in modo particolare se applicate ai materiali di Viterbo e di Orvieto23. L’archeologa propone la distinzione tra Laziale e Arcaica come possibile solamente quando il repertorio di quest’ultima, derivato dall’Italia centro-settentrionale, si sviluppa in modo autonomo. Una trasformazione, questa, leggibile nella sequenza della Crypta Balbi in contesti datati a partire dalla fine del XIII secolo ma che si compie pienamente tra XIV e XV secolo. Nella Maiolica arcaica dell’area umbro-laziale si verifica un rinnovamento del repertorio morfologico con un incremento quantitativo di forme aperte; inoltre si continuano a produrre tipi della tradizione locale (uno di questi, il boccale con corpo globulare e grande beccuccio a pellicano, continuerà ad essere prodotto fino alla transizione in Età moderna) insieme ad alcune nuove forme di ispirazione toscana24. 8.Riassumendo i dati fin qui raccolti (in attesa che questa ricostruzione sia messa alla prova del dato archeologico): sembra che la prima ceramica fine da mensa prodotta nelle botteghe del viterbese e probabilmente del territorio orvietano sia una ceramica smaltata, spesso decorata con l’uso di tre colori (bruno, verde e arancio) realizzata da artigiani immigrati, che al contempo introducono per la prima volta la tecnica della seconda cottura25 negli anni di poco antecedenti la metà del XIII secolo, forse inizialmente nei centri urbani più vicini alla costa poi in quelli più spostati verso l’interno. Essa presenta un repertorio morfologico estremamente inconsueto tra i materiali dell’Italia centro-settentrionale e trova invece diversi punti in comune con la Protomaiolica di Lucera, della Campania e della Sicilia. Al momento della sua prima comparsa, nella seconda metà del XIII secolo, la Ceramica laziale – forse il primo risultato di un ciclo produttivo ormai pienamente inserito nel tessuto urbano dei centri abitati – eredita molti caratteri di questa classe, che potremmo indicare come “Protomaiolica”. Qualcosa di simile è forse accaduto anche – e almeno – per alcune ceramiche invetriate campane e calabresi, che oltre a svilupparsi in un medesimo ambito cronologico recano diversi elementi in comune con la Ceramica laziale umbra e del Lazio settentrionale. Dalla fine del secolo si innesca una trasformazione delle forme e del repertorio decorativo con la classe denominata Maiolica arcaica, che può dirsi tale soltanto quando comincia a svilupparsi in modo autonomo rispetto alla Ceramica laziale, verosimilmente appunto a partire dalla fine del XIII secolo. La scansione tracciata da David Whitehouse nei primi studi sulla ceramica medievale orvietana26 e messa a punto in seguito alle ricerche di Hugo Blake sui materiali si Assisi e Montalcino27, pur tradendo una certa approssimazione dovuta alla fragilità degli unici dati cronologici disponibili, delinea sostanzialmente un avvicendamento di tre fasi (prima, sviluppata e tarda) senza però prendere in considerazione l’esistenza di una classe anteriore alla Ceramica laziale (fase prima) che oggi ci permette di capire la derivazione di alcuni singolari tipi morfologici delle produzioni successive.
NOTE:
1 Per Viterbo vedere G. Mazza, La ceramica medioevale di Viterbo e dell’Alto Lazio, Viterbo 1983, schede 36 e 37; per Orvieto cfr. La ceramica orvietana del Medioevo, catalogo della mostra (Milano 1983-1984), a cura di A. Satolli, Firenze 1983: I, p. 41, scheda 1; Ceramiche medioevali dell’Umbria: Assisi, Orvieto, Todi, catalogo della mostra (Spoleto 1981), a cura di Grazietta Guaitini, Firenze 1981, p. 148, scheda 96; Oltre il frammento: forme e decori della maiolica medievale orvietana. Il recupero della collezione Del Pelo Pardi, a cura di M. S. Sconci, Roma 1999, p. 45, scheda 5.
2 G. Mazza, La ceramica medioevale…, cit., schede 3, 9-12, 35.
3 Ibidem, schede 33, 36-38; La ceramica orvietana…, cit., p. 41, scheda 1; Oltre il frammento…, cit., p. 69, scheda 65.
4 M. Rotili, Ceramica invetriata da Montella e Rocca San Felice in Irpinia, in Atti XXXVII Convegno Internazionale della Ceramica 2004 e XXXVIII Convegno Internazionale della Ceramica 2005, Atti del convegno di studi (Albisola 2004) a cura di M. Rotili, Albisola 2006, p. 295, n. 5 A. M. Flambard H.richer, Scribla: la fi n d’un ch.teau d’origine normande en Calabre, Roma 2010, fi g. 529.
6 M. V. Fontana, La ceramica invetriata al piombo di San Lorenzo Maggiore, in La ceramica di S. Lorenzo Maggiore in Napoli, Atti del convegno (Napoli 1980), a cura di M. V. Fontana e G. Ventrone Vassallo, Napoli 1984, pp. 49-175, tavv. LX, LXI, LXVII.
7 N. L.cuyer, C.ramique et cuisine paysannes du Latium m.di.val: contribution des fouilles de Caprignano, Montagliano e Offi ano (Rieti), in Le ceramiche di Roma e del Lazio in et. medievale e moderna, Atti del convegno di studi (Roma 1993), a cura di E. De Minicis, Roma 1994, pp. 136-142; E. F. Bosman, M. G. Fiore, T. Leggio, A. Sennis, E. Spagnoli, Indagini archeologiche sul sito di Roccabaldesca in Sabina: notizia preliminare, in “Archeologia Medievale”, 19, 1992, p. 478.
8 M. Biagini, L’infl uenza toscana nell’alto Lazio: i casi di Ischia e Piansano, in Le ceramiche di Roma e del Lazio in et. medievale e moderna, Atti del IV convegno di studi (Viterbo 1998), a cura di E. De Minicis, G. Maetzke, Roma 2002, pp. 61-66.
9 B. Ward-Perkins, Excavations and Survay at Tuscania, 1972: a preliminary report, in “Papers of the British school at Rome”, 40, 1972, pp. 235-237.
10 C. K. Williams, Italian imports from a church complex in ancient Corith, in La ceramica nel mondo bizantino tra XI e XV secolo e i suoi rapporti con l’Italia, Atti del seminario (Certosa di Pontignano 1991), a cura di S. Gelichi, Firenze 1993, pp. 265-268.
11 Ad esempio il boccale tronco-conico con beccuccio a mandorla, già. attestato a Roma nella prima met. del XIII secolo, vedere A. Molinari, Le ceramiche rivestite bassomedievali, in Archeologia urbana a Roma. Il progetto della Crypta Balbi, a cura di L. Sagu., L. Paroli, Firenze 1990, p. 398.
12 G. Mazza, La ceramica medioevale…, cit., p. 27, scheda 23.
13 D. Whitehouse, La ceramica da tavola dell’Apulia settentrionale nel XIII e XIV secolo, in La ceramica medievale…, cit., pp. 417-427, tav. CLXXXVI.
14 S. Patitucci Uggeri, La protomaiolica in Puglia, in Federico II “Puer Apuliae”. Storia arte cultura, Atti del Convegno Internazionale di Studio in Occasione dell’VIII centenario della nascita di Federico II (Lucera 1995), a cura di H. Houben, O. Limone, Galatina 2001, pp. 118-123.
15 A. Ragona, Capacit. professionali di maestri ceramisti di Terra di Lavoro, di Sicilia e di Calabria al vaglio nel 1279, in La ceramica medievale…, cit., p. 493. 16 S. Fiorillo, La ceramica del castello di Lagopesole: la tavola dei d’Angi., in La ceramica come indicatore socio-economico, Atti del XXXIII Convegno Internazionale della Ceramica (Albisola 1999), a cura del Centro ligure per la storia della ceramica, Firenze 2001, pp. 217-227, tav. V, F. 17 L. Vallauri, J-D. Vigne, R-P Gayraud, La c.ramique, in L’.le Lavezzi. Hommes, animaux, arch.ologie et marginalit. (XIIIe-XXe si.cles, Bonifacio, Corse), a cura di J-D. Vigne, Paris 1994, p. 102. 18 M. Preta, Brocchette invetriate dalla collezione ex museo civico di Reggio Calabria, in XLII Convegno internazionale della ceramica: fornaci, tecnologie e produzione della ceramica in et. medievale e moderna, Atti del convegno internazionale della ceramica (Albisola 2009), Firenze 2010, pp. 319-325, tav. 1, n. 6.
19 Brucato. Histoire et archologie d’un habitat m.di.val en Sicile, a cura di J-M. Pesez, Roma 1994, p. 306, pl. 28.
20 Cfr. una foto della collezione Volpi del 1910 in A. Satolli, 1908-1910: documentazione non riciclata sul programmatico saccheggio delle maioliche antiche orvietane. 1, in “Bollettino dell’Istituto Storico Artistico Orvietano”, 65-66, 2009-2010, pp. 39-120, foto 51.
21 G. Mazza, La ceramica medioevale…, cit., pp. 22-24.
22 A Roma . attestata ancora in considerevole quantità. in contesti datati alla prima met. del XV secolo, vedere P. Güll, L’industrie du quotidien. Production, importations et consommation de la c.ramique . Rome entre XIV et XVI sicle, Roma 2003, p. 339, tab. 4.
23 A. Molinari, Dalle invetriate altomedievali alla maiolica arcaica a Roma e nel Lazio (secc. XII-XIV), in La ceramica invetriata tardomedievale dell’Italia centro-meridionale. Bilanci e aggiornamenti, Atti del convegno (Roma 1999), a cura di S. Patitucci Uggeri, Firenze 2000, pp. 27-41.
24 D. Romei, Appunti sulla circolazione della maiolica arcaica a Tuscania, in Le ceramiche di Roma e del Lazio in et. medievale e moderna, Atti del III convegno di studi (Roma 1993), a cura di E. De Minicis, Roma 1994, pp. 86-100.
25 G. Berti, S. Gelichi, T. Mannoni, Trasformazioni tecnologiche nelle prime produzioni italiane con rivestimenti vetrificati (secc. XII-XIII), in La c.ramique m.di.vale en M.diterran.e, Actes du VI congr.s de l’AIECM2 (Aix-en-Provence 1995), a cura di G. D.mians d’Archimbaud, Aix-en-Provence 1997, pp. 383-403.
26 D. Whitehouse, Introduzione allo studio della maiolica medievale orvietana, Laceramica orvietana…, cit., pp. 10-21.
27 H. Blake, The Archaic Maiolica of north-central Italy: Montalcino, Assisi and Tolentino, in “Faenza”, 66, 1980, pp. 91-121.w